(Gazzetta del Mezzogiorno)
Due ore sul campo. Fianco a fianco con la squadra. Spiegando, raccontando, provando a farsi capire. Guido Carboni sa bene che non c'è tempo da perdere. Soprattutto sa che a questo Bari manca maledettamente una vittoria. Non lo dice apertamente, ma si vede lontano un miglio che è stufo di commentare vittorie parziali e segnali di vitalità sparsi, quasi beffardamente, in tutte e sei le partite fin qui disputate.
Il Carboni che zompetta su e giù per il campo dell'antistadio è diverso da quello che «affronta» i giornalisti. Prima esplosivo, quasi trascinatore nell'ennesima seduta di tattica. Poi, razionale, quasi bloccato, fermamente intenzionato a non cadere nella trappola della polemica facile. La voglia di rispondere a chi lo ha già sistemato sui carboni ardenti è indubbamente fortissima, ma Guido da Arezzo conosce molto bene come va la vita, soprattutto come si vive all'interno del mondo del calcio. Forse anche per questo il sorriso continua a far capolino sul suo viso. Davanti alla squadra e agli occhi di quei pochi tifosi che, con grande passione, continuano ad affiancare la squadra nel faticoso lavoro settimanale.
Qui il problema non è Carboni, che (forse) sbaglia come capita a tutti quelli chiamati a fare delle scelte, ma che ha il grande merito di essersi tuffato in questa avventura con un entusiasmo e una passione che gli fanno onore. Bensì, la squadra. Rinnovata, ricostruita al culmine di una sorta di rivoluzione tecnica. A Bari si è deciso di voltare pagina, nella consapevolezza di andare incontro a rischi enormi. Carboni e Pari hanno creato un nuovo «spogliatoio», vero tallone d'Achille di un passato pieno di stenti; soprattutto hanno avviato un'opera di «normalizzazione» del fenomeno calcio a Bari. Non più scelte al buio (stranieri a gogò). Non più calciatori con la pancia piena e la lingua fin troppo sciolta, a caccia di ingaggi senza un briciolo di dignità . È arrivata gente motivata. Forse non i primi della classe, sicuramente non i più pagati, ma comunque uomini votati alla lotta e al sacrificio. Quello che ci voleva da queste parti.
A questa squadra va dato del tempo, però. Dove per aspettare non si intende fare finta di non vedere. Insomma, credere nel Bari non vuol dire negare l'evidenza di un gruppo incompleto e ancora in itinere, piuttosto mettere tutti nelle condizioni di poter essere giudicati. La fretta di «bocciare», la contagiosa voglia di processi sommari, quella patetica aria da ultima spiaggia: ecco, crediamo di aver capito cosa deve aver dato fastidio a Carboni, che saggiamente si tiene fuori dalla mischia non prima di far sapere «come questo gruppo deve alcune risposte all'ambiente esterno, perché a me ne ha date e anche di importanti».
Ultimamente Bari ha bruciato tanti allenatori. Un esonero è la cosa più facile da chiedere e da mettere in atto, dimenticando che le analisi si fanno a trecentossanta gradi specie quando anche un particolare può rivelarsi fondamentale nella chiave di lettura di una realtà come quella barese. Per fortuna a Carboni certi discorsi da bar interessano fino ad un certo punto. Lui sa che il lavoro resta la medicina più efficace. Con una classifica che langue, una squadra non sempre all'altezza e il solito, dilagante pessimismo ad oltranza. Ma tant'è.
Arriva il Genoa, intanto. Con la sua forza e il suo carisma. Insomma, non c'è tregua per questo Bari che si agita provando a rialzare la testa. Carboni ordina: «Niente paura, ci toccherà battagliare». Nasconde la squadra: «Vedrò nella rifinitura, anche se da ora in poi cercherò di dare alla squadra un assetto costante». E suona la carica: «Possiamo giocare alla pari anche contro una squadra più forte tecnicamente. Ma per far ciò dovremo essere aggressivi, non farci intimorire, vincere il tabù San Nicola».
Dubbio Doudou (affaticamento), possibile turno di riposo per Santoruvo, finora sempre presente. Pensierino finale: non importa chi gioca (il Bari è di tutti). Mai come stavolta conta solo vincere.
Antonello Raimondo